Difesa sindacale
 
     
 
 
 
 
 

Difesa sindacale n.2b
       Bollettino di coordinamento dei Comunisti Anarchici e Libertari in CGIL n.2 giugno ’11


Perché “Difesa Sindacale”
di Cristiano Valente

Riprendere oggi il nome  Difesa Sindacale come nostro strumento di coordinamento ha il significato di volerci collegare nel solco storico dei compagni anarchici italiani che, all’indomani  del secondo conflitto mondiale, scelsero  convintamente di collocarsi all’interno della rinata CGIL.
Tale scelta derivava oltre che da un convincimento teorico risalente all’impostazione della I° Internazionale  sulla necessaria unitarietà della struttura organizzativa di resistenza dei lavoratori,  da una collaudata pratica di unità con le altre formazioni antifasciste nei  lunghi anni dell’elisio.
Già  nell'imminenza della caduta del fascismo, gli anarchici confinati a Ventotene  discutono sul che  fare, in particolar modo rispetto all'azione nelle masse proletarie e approvano una importante risoluzione che invita i compagni:

“ad iscriversi nei sindacati di mestiere e di professione, per avere uno stretto contatto con le masse lavoratrici, indirizzando queste nella lotta veramente rivoluzionaria, per la conquista delle rivendicazioni proletarie, propagandando l'ordinamento libertario per la costituzione dei Consigli di Fabbrica, di azienda, d'industria nel campo produttivo”

Una  posizione che si manterrà inalterata a conflitto terminato, segno di una  reale presenza nella classe, che sfocerà, dopo la resistenza, nella presenza significativa degli anarchici nella Confederazione Generale del Lavoro come a Carrara nel sindacato minatori con Sassi e nella Camera del Lavoro con la segreteria Meschi, a Genova nel sindacato facchini del porto con Bianconi, nonché in altre località (Sestri Ponente, Lavagna, Torino, Bologna, ecc.) dove un gran numero di compagni lavoratori partecipava alla vita del sindacato.
Tale  posizione viene ufficializzata al primo congresso della FAI ( Federazione Anarchica Italiana), tenuto a Carrara nel settembre del '45 che decide di costituire un Comitato Sindacale atto a coordinare l'opera dei già esistenti Gruppi di Difesa Sindacale. I congressisti infatti deliberano:

“… di partecipare attivamente alle lotte operaie, pur sapendo che queste non esauriscono il nostro compito; per rendere più efficace questo lavoro ritengono indispensabile la costituzione di un Comitato Sindacale di coordinazione che colleghi l’opera dei Gruppi di Difesa Sindacale già esistenti e ne promuova l’ampliamento e la diffusione.
Questo allo scopo di risvegliare negli organizzati la conoscenza dei fini classisti dell’organizzazione stessa fondata sull’autodeterminazione dei lavoratori, attraverso la libera elezione e la revocabilità di tutte le cariche sindacali; nella certezza che la libera volontà dei lavoratori stessi non potrà non esprimersi se non nel senso di realizzare l’effettiva unità rivoluzionaria dei lavoratori, alfine ultimo dell’abbattimento del regime capitalista che ha nello Stato il proprio naturale presidio”

Si forma così la corrente anarchica di difesa sindacale, che al I° Congresso nazionale della nuova  CGIL scaturita dal “Patto di Roma”, otterrà l'elezione di un proprio rappresentante nel Comitato Direttivo nazionale della CGIL,  Attilio Sassi, segretario nazionale del Sindacato Minatori e Cavatori e del sindacato lavoratori all'estero.
Gli elementi politici che caratterizzano la corrente anarchica nelle sue iniziative di dibattito e di lotta sono la convinzione che l'unità della classe lavoratrice nel sindacato unitario è l'elemento essenziale della lotta rivoluzionaria e di classe e che questa unità per essere fattiva deve essere emanazione diretta della base lavoratrice.
E’ su queste direttive che si ribadisce l'adesione alla CGIL, per liberarla dalle negative influenze partitiche, contro i Consigli di Gestione, denunciati come organi di collaborazione con il capitale, propagandando parallelamente la costituzione dei Consigli di Fabbrica concepiti come organismi antagonisti al padronato.
Il primo convegno nazionale dei Comitati di Difesa Sindacale si tiene a Genova Sestri il 5/6 maggio 1946.
Sono presenti i delegati dei seguenti comitati: Milano. Novara, Brescia, Torino, Carrara, Livorno,Roma, Civitavecchia, Napoli, La Spezia, Savona .
Hanno inviato adesione scritta i comitati di Cagliai, Iglesias, Trapani, Palermo, Foggia, Canosa, Ferrara, Firenze, Cremona, Trieste, Voghera, Venezia.
Nelle risoluzioni finali si legge:

“....Constatato: che l’unità della classe lavoratrice nei sindacati permane l’elemento essenziale della lotta rivoluzionaria e di classe.
Chiaro essendo che questa unità deve essere attiva e fattiva deve essere emanazione della base cioè dei lavoratori nelle fabbriche, nei campi, nelle miniere, nei cantieri ecc. e non dei rappresentanti dei partiti sia di destra che di sinistra.  (i CDS)…  decidono di continuare per questa via mantenendo la loro adesione alla CGIL e di accentuare l’iniziativa dei gruppi di Difesa Sindacale ,….
Contro i consigli di gestione ritenuti organi di collaborazione e non rappresentanti altro che una vecchia illusione.
Si impegnano all’attivazione dei consigli di fabbrica e fattoria, organi che debbono coordinare gli sforzi dei lavoratori tesi all’abbattimento del capitalismo ed assumere gli oneri della gestione diretta della fabbrica ….
Agitare l’applicazione della giornata lavorativa a sei ore, per l’abolizione dei cottimi e la retribuzione mensile sufficiente per tutti i lavoratori, in un’ottica di solidarietà verso i disoccupati e i reduci senza lavoro ….
La sede del comitato nazionale viene stabilita a Genova Sestri e si lancia una proposta per un periodico settimanale su problemi sindacali.”

Un altro elemento di risoluta critica all'interno dell'organizzazione sindacale è il rifiuto dell'attribuzione delle cariche sindacali in base alle liste bloccate dei partiti, propugnando elezioni dirette e libere e impegnando gli aderenti alla corrente di accettare incarichi sindacali solo in questo caso;  scelta che se di fatto limita enormemente la presenza anarchica negli organismi della CGIL, accentua comunque la volontà di ridare al sindacato i suoi connotati di classe e di organizzazione autonoma dei lavoratori.
Nel secondo convegno nazionale dei Comitati di Difesa Sindacale tenuto sempre a Genova Sestri nell’agosto del ‘47 si afferma:

“Nei confronti della CGIL raccomanda agli aderenti ai Comitati di Difesa Sindacale di accettare gli incarichi sindacali alla condizione che questi risultino affidati mediante elezioni dirette da parte della massa e denuncia il sistema elettivo adottato attualmente dalla CGIL sulla attribuzione delle cariche sindacali in base a liste bloccate dei partiti politici, sistema che i CDS respingono perché non rispondente ai principi sopra indicati”

Alcuni esponenti della corrente anarchica della CGIL, oltre al già citato Attilio Sassi, vengono eletti, nei vari congressi, nel Comitato Direttivo.
Tra essi Marcello Bianconi, segretario del sindacato provinciale Facchini del porto di Genova, Gaetano Gervasio, del Comitato Centrale della FIOM, Umberto Marzocchi, della Commissione Esecutiva della C.d.L. di Savona.
Da citare ancora, tra i più attivi, Lorenzo Parodi ed Ugo Scattoni, del Comitato Centrale della FIOM, e lo stesso Alberto Meschi, segretario della Camera del Lavoro di Carrara.
L’azione sindacale e politica di questi compagni risentirà fortemente della situazione economica ed internazionale creatasi nel dopoguerra in Italia,  dalla prima scissione della corrente democristiana, alla successiva socialista, ma si caratterizzerà  sempre per il tentativo cocciuto dell’unità operaia.
Risentirà pesantemente anche dei problemi  interni allo stesso movimento anarchico specifico. Da un lato i settori così detti  antiorganizzatori, contrarissimi alla militanza nei sindacati e fautori di una opzione politica esclusivamente culturale, pedagogica e di opinione. Dall’altro ai continui tentativi di ricostruzione della vecchia struttura sindacale precedente  l’avvento del fascismo,  l’USI ( l’Unione Sindacale Italiana) con una caratterizzazione ancor più marcatamente anarcosindacalista. Tendenza  non presente nella vecchia unione sindacale del 1912. Peseranno, poi, negativamente sulla tenuta dell’esperienza dei Comitati di Difesa Sindacale i tentativi di organizzazione di una struttura politica degli anarchici coesa e teoricamente omogenea dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria i quali pur lavorando sindacalmente con i compagni che facevano riferimento alla FAI nei Comitati di Difesa Sindacale accentuarono sempre più la scelta organizzativa specifica per poi confluire come esperienza politica fuori dal campo dell’anarchismo.
Ma questa è più una storia  interna del movimento anarchico specifico anche se inevitabilmente pesò e peserà per la stessa tenuta dell’esperienza della corrente anarchica di Difesa Sindacale.
Ciò nonostante fra  tutte  queste difficoltà i compagni di Difesa Sindacale rimasero attivi all’interno della CGIL  fin quasi gli anni ‘60 e in occasione del IV congresso della CGIL (27/2-4/3/1956- Roma) in una loro lunga dichiarazione riconfermeranno le loro posizioni:

“E’ estremamente dannosa la tendenza a controllare politicamente l’organizzazione, a legarla meccanicamente alle campagne politiche dell’opposizione parlamentare ….
E’ prassi normale che il partito (o l’interpartito) si prenda non pochi dei migliori quadri intermedi forgiati dal sindacato e inserisca negli organismi direttivi del sindacato i suoi quadri politici privi di esperienza sindacale …
Il problema della democrazia sindacale è dunque alla base di ogni rafforzamento organizzativo. Ma occorre una democrazia che non sia soltanto formale; che consista nel rapporto organico base- dirigenti ; che veda la partecipazione della base alla decisione, alla formulazione e alla revisione dell’indirizzo dell’organizzazione …..
Chiediamo che nella elaborazione dei programmi si tenga conto delle reali condizioni politiche economiche esaminate; che essi non siano viziati dall’attesismo benevolo verso un preteso governo di transizione, o dal possibilismo di una  diversiva offerta di collaborazione”

Nonostante la profonda capacità analitica  (si pensi quanto ancora oggi sia in uso l’inserimento di quadri politici nel sindacato o viceversa da questo verso strutture  amministrative comunali o provinciali e quanto ancora nello stesso linguaggio interno al sindacato ci si riferisca ad un presunto “governo amico”) i problemi che accennavamo fanno si che  tale esperienza di fatto si interrompa  e sarà solo la ripresa delle lotte operaie e giovanili, oltre un decennio dopo la dichiarazione che abbiamo visto,  che porterà nuovi nuclei di giovani compagni comunisti libertari ed anarchici a porsi nuovamente e concretamente la necessità di un lavoro organizzato e finalizzato all’interno della classe operaia e nelle strutture  sindacali della CGIL che assumerà in quegli anni la struttura di resistenza  in cui la classe si riconoscerà in termine maggioritari.
La presenza dei compagni anarchici all’interno della nuova stagione politica in Italia si sostanzia già a partire dai primi anni ’70 ed ecco ciò che nell’’84 buona parte dei compagni attivi nella CGIL all’interno di un loro ampio documento di riflessione, per noi ancora oggi importante punto di riferimento, mirante proprio alla definizione teorica e strategica di una strategia e tattica sindacale, affermano:

“Quanto fin qui detto sulla storia del problema dell’unità di classe ci fornisce alcuni utili insegnamenti. Il primo, e più importante , è che i riformisti temono l’unità di classe che si cementi alla base alla ricerca della soddisfazione dei bisogni immediati; il secondo è che l’unità sindacale viene da essi intesa solo come accordi di vertice per il controllo della spontaneità delle lotte, ed in tal senso diviene un’arma contro l’azione delle minoranze rivoluzionarie …...
La premessa essenziale è che punto di riferimento costante del militante comunista anarchico deve essere l’unità di classe.
Questa impostazione ci viene convalidata dal timore che i riformisti hanno dimostrato di avere per dei Consigli di Fabbrica espressioni dirette della classe operaia in fabbrica, al di fuori dei controlli verticali, o peggio ancora di un “Sindacato dei Consigli”…..
Da tutto quanto detto discende che i comunisti anarchici non possono collocarsi all’interno del sindacato alla stregua di una delle tradizionali componenti, diversa solo nei contenuti, proprio perché convinti che la linea politica ha possibilità di verifica solo con il confronto tra i lavoratori e che è quindi prioritario realizzare un metodo di funzionamento sindacale che restituisca ai lavoratori la possibilità e la capacità di decidere, cosicché questo metodo possa poi premiare le proposte strategiche più funzionali agli interessi dei lavoratori …..
Non è tanto importante, oggi, avanzare piattaforme più radicali, quanto spingere i lavoratori a decidere  realmente i propri obiettivi in prima persona …...
Rimane comunque importante testimoniare l'esistenza di un legame ideale e politico tra la nostra azione sindacale di oggi e quella portata avanti in altri periodi storici dal nostro movimento, legame che si esplica in un impegno sindacale degli anarchici che punta alla affermazione di un sindacato di classe, trasformatore, unitario, democratico.”

E’ con questo premesse e con questo bagaglio di esperienze storiche che noi oggi riprendiamo il cammino di coordinamento dei comunisti anarchici e libertari nella CGIL convinti ancor  più,  anche dalle nostre esperienze sindacali che:

“…. per abbattere il governo ed abbatterlo a scopo di emancipazione generale, bisogna avere con noi quanta più massa, è possibile, ed una massa quanto più e possibile cosciente dello scopo per cui si deve fare la rivoluzione. E la massa. non viene alle idee anarchiche così di botto, senza un tirocinio più o meno graduale.
Bisogna dunque entrare, in contatto colla massa, per sospingerla avanti ed averla con noi in piazza nei giorni della lotta, risolutiva. Le organizzazioni economiche ci sembrano uno dei mezzi migliori di cui disponiamo”
(E. Malatesta “Gli anarchici e le leghe operaie”  in Volontà del 20 sett. 1913)

E concludendo:

“ Per queste ragioni …..gli anarchici debbano restare, naturalmente quando è possibile restarvi con dignità e indipendenza, nelle organizzazioni tali quali sono per lavorarvi dentro e cercare di spingerle il più avanti possibile, pronti a servirsi, nei momenti critici della storia, dell'influenza che possono avervi acquistata  per trasformarle repentinamente da modeste armi di difesa in potenti strumenti di assalto.
E questo, si intende bene, senza trascurare il movimento proprio, il movimento d'idee, che è l'essenziale, edal quale tutto il resto deve servire di mezzo e di strumento”.  
( E. Malatesta – “Movimento operaio e anarchismo”  in Pensiero e Volontà del 16 dic. 1925)

 


 


Dopo lo sciopero generale del 6 di maggio la proposta CGIL sulla contrattazione.
Un passo avanti, due indietro.

di Cristiano Valente

Il Direttivo Nazionale del 10/11 maggio scorso ha approvato, a larga maggioranza,  una proposta sulle nuove regole per la contrattazione.
Tale Direttivo si è tenuto subito dopo lo sciopero generale del 6 maggio indetto dalla sola nostra organizzazione.
La riuscita dell’iniziativa, nonostante che da parte della segreteria si sia proclamato e mantenuto di sole 4 ore, lasciando alle strutture territoriali e di categoria la generalizzazione per l’intera giornata e la buona adesione nei luoghi di lavoro, in particolare nei settori privati e la grande partecipazione alle manifestazioni,  ha dimostrato che nonostante il pesante attacco rivolto alle condizione della classe lavoratrice ed alle prospettive delle nuove generazioni, tutte le capacità e le energie di risposta non si sono ancora perse.
Intorno e con la CGIL si è schierata “ la meglio gioventù ” oltre che vasti settori dei lavoratori pubblici, dell’istruzione, ampi ambiti lavorativi della cultura, dello spettacolo e dell’informazione.
Questa capacità e questo riconoscimento di rappresentare, come CGIL,  se non l’unico , certamente oggi uno dei più importanti  punti di riferimento organizzativi, con cui tentare una modifica  dei rapporti di forza, meritava, a nostro avviso, una più decisa e definita indicazione da parte del suo massimo organo decisionale.
L’istantanea  di questo assalto padronale alle condizioni del movimento operaio e alle nuove generazioni  vede
La divisione del movimento sindacale, in seguito all’ Accordo separato del 2009, amplificato dalla vicenda FIAT successivamente, con CISL e UIL caratterizzate sempre più come strutture collaterali e complici del padronato e dello stesso governo, l’attacco, seppur momentaneamente rientrato, da parte di Finmeccanica, struttura pubblica, ( oltre il 30% è in mano diretta del Ministero dell’Economia)  con l’ipotizzata chiusura dei Cantieri Navali campani e liguri è di estrema gravità e impone una profonda e chiara analisi che  permetta di impostare una coerente iniziativa politica sindacale nei riguardi di un siffatto progetto governativo e padronale.
Nel documento finale del Direttivo troviamo invece una sorta di riflessioni ed indicazioni che non fanno ben sperare.
Si auspica , a fronte di tale  attacco chiaro ed esplicito alla contrattazione nazionale, una sorta di ammiccamento alla CISL e UIL , prospettando il ruolo dei 
 
nuovi Contratti collettivi Nazionali …. meno prescrittivo  e più propositivo di una contrattazione di secondo livello”

L’articolato del Direttivo a tal proposito non aggiunge molto altro, ma già questa sola affermazione è significativa di una disponibilità agli altri sindacati ed allo stesso governo ipotizzando un modello contrattuale che rappresenta una via di mezzo fra il modello ante 2009, radicato sulla centralità della contrattazione  nazionale, e quello firmato due anni fa da CISL e UIL e Confindustria, il quale  attraverso le deroga previste alla contrattazione nazionale di categoria vorrebbe dare più spazio alla contrattazione decentrata di secondo livello.
Queste posizioni non sono quelle che  oggi servono ai lavoratori, tutti e soprattutto non sono all’altezza dello scontro in atto.
Se è vero che il tentativo padronale e governativo è proprio quello di ridurre sempre più la capacità contrattuale delle strutture sindacali  attraverso lo svuotamento dei contratti nazionali, sapendo che proprio per la struttura tipica dell’apparato produttivo nazionale, fatto per di più di piccole e piccolissime aziende, all’interno delle quali non si riesce a fare alcuna reale contrattazione (vedere Difesa Sindacale n°1 Relazione sulla contrattazione), non è politicamente saggio ipotizzare una diluizione delle materie della contrattazione nazionale

“e un ampliamento delle materie delegate dai CCNL al secondo livello” .

Significa non capire o far finta di non capire lo scontro che è in atto. Non riflettere sul fatto che già le precedenti disponibilità da parte della segreteria CGIL sulla rappresentanza, così come anche l’attuale documento del Direttivo siano state  rigettate dalle altre organizzazioni sindacali CISL e UIL, le quali si apprestano invece nei prossimi giorni a scrivere un avviso comune insieme a Confindustria proprio sulle rappresentanze sindacali e sulla contrattazione escludendo di fatto ancora  la CGIL.
Crediamo non affatto casuale che la UIL abbia disdettato l’accordo del ’93 proprio prima di questa iniziativa in modo da mettere in discussione formalmente oltre la contrattazione nazionale anche le stesse RSU a favore delle RSA
Sarebbe stato necessario invece, in questa fase, avere alcune posizioni limpide e cristalline e definire, proprio perché è la contrattazione nazionale ad essere attaccata, una maggiore rigidità dei contratti nazionali invece di diluire i suoi criteri.
Il documento del Direttivo Nazionale non va in questa direzione, ma ci appare molto più funzionale a quel tentativo, in atto da tempo, di consolidare un forte polo moderato all’interno dell’attuale opposizione parlamentare che fa riferimento al Partito Democratico, ripristinare un controllo all’interno della CGIL agevolando la sua svolta corporativa già intrapresa da CISL e UIL, (basti pensare alle posizioni  che uomini del PD hanno assunto nei confronti della vicenda FIAT come lo stesso Fassino, oggi Sindaco di Torino) battere definitivamente le sue componenti di opposizione interna, isolare la combattività di alcune sue categorie, garantirsi un movimento sindacale cinghia di trasmissione partitica, in vista di un cambiamento politico più generale.
Ma ciò che ci pare ancora più grave e pericoloso è tutta la struttura generale del documento che giustifica e rende più esplicita l’uso di un tale linguaggio e di tali conclusioni.
Di fatto ancora una volta da parte del direttivo quello che si lancia è un appello ad una ennesima concertazione nonostante sia chiaro che governo e padronato abbiano abbandonato oramai da tempo una siffatta politica, che per altro ha già determinato i guasti e le frantumazioni presenti all’interno del movimento operaio . Si dice, infatti:

” la CGIL ritiene necessario un accordo tra le parti sociali per lo sviluppo economico e il miglioramento sociale”

Ma quante sconfitte sono necessarie ancora per capire che nessun accordo o scambio è possibile con l’avversario di classe.?  Quante politiche di contenimento salariale abbiamo già dato in attesa di nuova occupazione? Eravamo nel lontano ‘78 quando scambiammo salario per occupazione;  ed è finita che abbiamo perso salario ed occupazione.
Lo steso a seguito dell’accordo del ‘93 quello della concertazione e della politica dei redditi.  Dopo aver perduto l’anno prima la  Scala  Mobile,  abbiamo accettato il contenimento dei nostri salari, allungato i tempi della contrattazione, definita la contrattazione di secondo livello, per arrivare alla situazione odierna in cui abbiamo perso salario occupazione e la contrattazione articolata non supera il 20%.
Ma non solo. Si continua a sostenere che questa classe dirigente sia sostanzialmente incapace nella competizione globale, si continua con quella sciagurata logica politica del dare consigli ai padroni per attuare una più vera  e cruda competizione capitalistica. Si afferma infatti che:

 “ le ragioni per cui il Paese è fermo sono antecedenti la crisi globale che le ha solamente rese più evidenti. In primo luogo una struttura d’impresa troppo frantumata per competere con il mondo e tenere il passo dell’innovazione ….. carenza cronica delle infrastrutture, materiali ed immateriali, ivi compresa la insufficiente qualità dei servizi pubblici e della Pubblica Amministrazione …..un sistema creditizio che premia la rendite a scapito della propensione a investire”

Negli stessi giorni in cui si svolgeva il Direttivo Nazionale i padroni, con la loro capacità di dire concretamente come stanno le cose,  ci  informavano che,  nonostante  l’impresa manifatturiera italiana sia formata di media da 9 addetti a fronte dei 36 di un azienda tedesca e dei 14 di una francese, il capitale non è affatto frantumato.
Un terzo degli occupati italiani (6 milioni di persone) lavora in gruppi di impresa fortemente interconnesse tra loro attraverso partecipazioni azionarie che li rendono infine riconducibili alla stessa società. I gruppi di impresa sono in tutto oltre 76mila. Di questi, 49 mila hanno meno di 19 addetti.
La scelta dell’imprenditoria italiana verso questa sorta di frazionamento viene confermata  anche dal dato Unioncamere del 2009 (ultimo anno disponibile).
Le operazioni di filiazione o di separazione d’impresa (da una azienda ne nascono due) o di scorporo di ramo d’azienda (per esempio il settore commerciale diventa una società autonoma) sono 52.726
Esistono quindi precise convenienze dell’imprenditore a non far crescere troppo la propria azienda
In uno studio del quotidiano confindustriale del 17/maggio 2011 dal titolo significativo “Piccoli non per destino ma per scelta” , si legge:

…. C’è la questione della flessibilità del lavoro in uscita, alias l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che rende complesso il licenziamento effettivo nelle aziende con oltre 15 addetti. E dunque l’imprenditore può vedere di buon occhio due società da 14 occupati, anziché una da 28. C’è poi la possibilità di moltiplicare artificialmente i diritti di proprietà: da una impresa ne ottieni due e le intesti al figlio a alla figlia ….  avere più aziende (piccole, o per lo meno più piccole) permette di giocare su più tavoli allocando i costi ora in un’impresa ora nell’altra, calibrando così al meglio(e in maniera non troppo elegante, ma del tutto legittima) il rapporto con l’erario. Esiste poi un problema di governance. Quando le aziende si strutturano molto gli obblighi aumentano. Hai il capitale sociale sopra i 100mila euro? Fatturi più di 7,5 milioni all’anno? Hai almeno 50 addetti? Con due di queste condizioni, devi munirti di un collegio sindacale ( molto impegnativo come interlocutore,quando formato da professionisti seri) e devi farti certificare il bilancio da una società di revisione (costosa).
Più sei piccolo e meno doveri hai, perfino, per il deposito del bilancio”

Ancora più esplicitamente, dando il segno di quanto imbarbarimento si è insinuato nei settori sociali produttivi,  (altro che “classe dirigente che non ha ancora rinunciato al proprio compito” come si legge nel documento finale del Direttivo) sul sito delle Piccole e Medie Imprese (PMI-dome) citando proprio lo studio confindustriale  a conferma della  bontà e della condivisione dei motivi per cui i padroni non ritengono di crescere nelle dimensioni organizzative, si legge:

“ Noi aggiungiamo che a 15 dipendenti scattano gli obblighi di cui alla legge 68/99, altro stop alla voglia di crescere”

La Legge 68/99 altro non sono che le "Norme per il diritto al lavoro dei disabili" ; cioè la possibilità e obbligatorietà di assumere lavoratori , in percentuali che la legge stabilisce, delle categorie  protette.
La sensibilità odierna dei nostri padroncini, nonostante secoli di  ideologia dominante intrisa di commiserevole carità cristiana nei confronti degli ultimi e degli indifesi, si avvicina più alla logica della  “rupe Tarpea” di Spartana memoria. Ma tant’è che senza alcuna vergogna oggi si possono asserire e scrivere tali affermazioni.
Sulla rappresentanza dei lavoratori rimandiamo alla nostro contributo sul primo numero di Difesa Sindacale,  ma in ogni caso notiamo che sul documento licenziato dal Direttivo si fa riferimento alla proposta di rappresentanza già indicato dalla CGIL, ma si parla di RSU come strutture di base unitarie ed elettive del sindacato e non dei lavoratori.
Non vorremmo che una tale dizione sia anch’essa una sorta di altra mediazione nei confronti di CISL e UIL che hanno sempre avuto come logica di rappresentanza solo i propri iscritti, cosa che la CGIL da sempre ha contestato e mai ufficializzato nella sua prassi sindacale,  avendo pur con tutti i limiti delle diverse stagioni politiche e sindacali,  chiamato alla consultazione tutti i lavoratori iscritti e non .
In questo scenario la ricomposizione  di un’area di opposizione di classe all’interno della CGIL, obiettivo verso  cui noi lavoriamo , ci pare ancora più urgente.
Le diverse sensibilità di classe che oggi all’interno della CGIL esistono hanno l’obbligo di costruire un percorso ed una iniziativa che riesca a coagulare intorno ad essa le migliori capacità di analisi e di tenuta organizzativa.
Occorrerebbe  uscire dai limiti dell’analisi e dai bizantinismi lessicali ed indicare con forza e chiarezza alcuni obiettivi precisi su cui tentare di organizzare la resistenza.
Il recupero nel rapporto tra PIL e monte salari, oggi rovinosamente calato al 40% nella quota salari a fronte del 60% di rendita e profitti, oppure la stabilità delle nuove generazioni attraverso una sostanziale riduzione della precarietà lavorativa. Già solo questi due obiettivi, per altro confermati all’ultimo congresso della nostra organizzazione, permetterebbero di coagulare forze ed energie nuove nello scontro di classe.
Allora si vada avanti. Si indichi chiaramente la rotta di una nuova necessaria riscossa che abbia come centro la difesa intransigente dei diritti acquisiti e l’allargamento delle tutele ad un maggior numero di giovani precari, sotto occupati compreso i migranti, sempre più ricattati nel mondo del lavoro nero.
Si abbia il coraggio di tornare a discutere in tempo delle future pensioni che grazie all’accordo del ‘95 saranno per le nuove leve che hanno trovato lavoro comunque miserevoli ed incapaci di garantire una vecchiaia degna di questo nome.
Si irrobustisca la contrattazione nazionale che viene attaccata da ogni parte, consapevoli che solo con l’unità reale di tutti i lavoratori e non delle sigle sindacali, si potranno determinare nuovi rapporti di forza. Si faccia una reale politica sindacale di parte. Quella dei lavoratori.
Non si continui a cianciare di sviluppo, di maggiore produttività,  legando questa ultima alla possibilità di mantenere o conquistare nuovi margini per le classi lavoratrici.
Se questo diventa l’orizzonte delle strutture sindacali siamo tutti sconfitti in partenza. Si smetta anche di inseguire come un nuovo eden la necessità e possibilità di merci ecologicamente compatibili, la “green economy”  o altre lavorazioni più o meno di qualità.
In un regime di concorrenza un singolo può anche decidere di fare un prodotto di qualità migliore e che supplisca a bisogni sociali pur guadagnandoci di meno, ma ad un certo punto guadagnerà troppo meno degli altri ed uscirà dal mercato finendo per non produrre più niente. Questa è la legge dell’attuale sistema di produzione. In ambito capitalistico proprio il fatto che la produttività aumenti fa si che la crisi si verifichi: si produce una maggiore quantità di oggetti nella stessa unità di tempo. Ciò comporta che da una parte i mercati si saturino più facilmente e dall’altra ci sia la tendenza a sostituire la forza lavoro con le macchine. 
In Italia poi in questi ultimi anni la produttività generale non è affatto aumentata; ciò nonostante i capitalisti italiani sono riusciti a fare ugualmente lauti profitti. Questo è dipeso dal fatto che  i nostri padroni sono riusciti a usare da una parte la leva fiscale cioè una forte evasione fiscale  e dall’altra hanno intrapreso una forte riduzione del costo del lavoro, indebolendo e fiaccando la capacità di resistenza dei lavoratori.
Per questi motivi a crisi acclarata il nostro sistema risponde capitalisticamente peggio degli altri paesi. Dove si hanno lavoratori deboli vi sono merci con minore valore aggiunto. Aumentare la produttività o il valore aggiunto delle merci, è impensabile se non si tengono fermi i diritti, le condizioni normative e salariali dei lavoratori.
E’ il livello della lotta di classe che impone e obbliga a scelte più impegnative dal punto di vista degli investimenti e della razionalizzazione dei processi produttivi. Se la borghesia ha a sua disposizione una massa lavoratrice debole e ricattata, nessun investimento è necessario.
Ciò significa non paventare nessun altro scambio, nemmeno quello generazionale, (meno diritti per i lavoratori a tempo indeterminato, maggiori garanzie per i nuovi assunti) che ogni tanto settori della borghesia così detta  illuminata prospettano, mantenere fermi i diritti acquisiti, rivendicare sempre più una quota di quel valore aggiunto a favore dei produttori e delle nuove generazioni, distogliere quote di denaro dalle rendite verso i servizi. Significa avere una politica di parte. Significa sostenere sempre migliori condizioni lavorative e salariali dei lavoratori.


 

 


Il mostro dimenticato
di Federico Anatella

Una potente holding, la OLT S.p.A., sta portando a termine la costruzione di un rigassificatore offshore al largo della foce dell’Arno.
Il rigassificatore offshore è una gigantesca nave alta circa dodici piani e lunga come tre campi di calcio, ancorata a dodici miglia dalla costa. Si tratta di un vero e proprio”mostro” che sarà usato per immagazzinare gas naturale liquefatto, detto GNL.
Il GNL è gas naturale raffreddato a – 161 °C; i gas, infatti, vengono trasportati sotto forma di liquido per ridurne notevolmente il volume e rendere più agevole lo spostamento. Si consideri che nella rigassificazione 1 litro di GNL si trasforma in 600 litri di gas naturale. Il “mostro”, quindi, potrà contenere 137 milioni di litri di GNL pari a 82 miliardi di litri di gas.
Quali sono i pericoli?
Un incidente, una calamità naturale o un attentato terroristico all’impianto potrebbero dar luogo ad una catastrofe, anche per la presenza nelle vicinanze della raffineria Eni, della Costiero Gas con i suoi depositi di gpl e, last but not least, della base militare americana di Camp Darby.
Comunque, molti studi hanno evidenziato la pericolosità di impianti come quello che la OLT sta costruendo al largo della costa tra Pisa e Livorno.
Ad esempio una ricerca voluta dai cittadini di Oxnard, nella contea di Ventura (una città costiera della California di 200.000 abitanti, tipo Livorno) ha previsto che nel caso di peggior incidente possibile una nube di gas incendiario si spingerebbe per circa 55 Km dall’epicentro del disastro distruggendo tutto quello che incontra lungo il suo cammino e provocando circa 70.000 morti (facciamo i dovuti scongiuri!).
Secondo un altro studio commissionato dal Pentagono, il dipartimento della difesa USA, l’energia contenuta in una gasiera è equivalente a quella di diverse bombe atomiche di potenza pari a quella sganciata (dagli stessi americani!) su Hiroshima.
Un rigassificatore “galleggiante” come quello della OLT non è mai stato realizzato né sperimentato in nessuna parte del mondo, si tratta di una assoluta novità. Pertanto non si conoscono gli effetti che il “mostro” potrebbe avere sull’ambiente marino.
L’impianto scaricherà in mare all’incirca 3,6 tonnellate di acqua marina clorata e raffreddata di – 7 °C ogni anno.
Il cloro (per la precisione ipoclorito di sodio, comunemente detto varechina) verrà mescolato all’acqua di mare e servirà ad impedire la formazione delle incrostazioni.
Il raffreddamento dell’acqua sarà invece la conseguenza del processo di vaporizzazione; il gas naturale liquefatto per raffreddamento verrà riscaldato con l’acqua di mare per consentirne l’evaporazione.
Peccato che gli scarichi di questi processi verranno gettati in mare.
Secondo Greenpeace l’immissione di questi reflui in mare creerebbe una colonna d’acqua fredda e clorata con densità e caratteristiche diverse dal corpo idrico circostante, tendente a non mescolarsi ma ad affondare e ad essere trasportata dalla corrente.
Il “mostro” sarà situato nel mezzo dell’area marina protetta nota come “Santuario dei cetacei”. Non vi sono prove che dipenda dalla costruzione dell’impianto ma il 26 gennaio scorso una balenottera si è spiaggiata sulla costa di fronte al luogo dove sorgerà il rigassificatore.
Serve veramente questo sito industriale?
Uno studio condotto sempre negli Stati Uniti qualche anno fa (Doyle, Energy geopolitcs, Scientific American, 2004) ha stabilito che il trasporto di gas naturale via mare non è, nel complesso, economico ed è di difficile gestione.
 L’impatto occupazionale, poi, sarà ben poca cosa (qualche decina di posti di lavoro) a fronte di possibili danni all’ambiente marino circostante ed alla conseguente ricaduta negativa nei settori della pesca e del turismo.
Gli unici che ci guadagneranno saranno, come al solito, gli affaristi che si sono inventati il business ed i loro amici politici ed amministratori locali che li hanno aiutati a realizzarlo.
Infine vorremmo ricordare il terribile disastro di Fukushima dove, a seguito di un terremoto-maremoto, si sono verificati una serie di gravissimi incidenti presso l’omonima centrale nucleare. Si potrebbe ribattere: “cosa c’entra il cataclisma giapponese con la costruzione del rigassificatore offshore?”. A nostro avviso c’entra! Infatti, quali rischi correremmo collocando il “mostro” in un’area dove si sono avuti ben cinque terremoti negli ultimi tre anni per la presenza di una faglia? Uno di questi terremoti, verificatosi il 30 giugno 2003, ha registrato una magnitudo di 4.0 (per capire, il disastroso terremoto a L’Aquila nel 2009 aveva una magnitudo pari a 5,9 della scala Richter).
La costruzione del “mostro” a largo delle nostre coste, dopo le dovute autorizzazioni ministeriali, prosegue con il beneplacito delle istituzioni locali e nell’indifferenza della maggior parte della popolazione.
Soltanto un gruppo di persone preoccupate del loro futuro collettivo, in primis il comitato OFFSHORE NO GRAZIE, si sono mobilitate contro questa decisione caduta dall’alto. È grazie al loro impegno ed al loro esempio che noi oggi raccontiamo questa storia.


 

 

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